Internet day: celebriamo la nostra miopia

di | 30 Aprile 2016

E’ inutile ripeterlo, visto che ne stanno parlando da giorni tutti i media nazionali: oggi, trent’anni fa, internet approdava in Italia grazie al primo collegamento realizzato fra il Cnuce di Pisa ed il nodo di Roaring Creek, in Pennsylvania, grazie ad un collegamento via satellite attraverso le infrastrutture di Telespazio al Fucino.

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Grandi festeggiamenti, in una kermesse di due giorni partita ieri con un giorno di anticipo, tesa a sottolineare l’importanza della rete e di quanto abbia trasformato le nostre vite. Peccato che però la trasformazione sia a macchia di leopardo e che il digital divide continui a imperare nel nostro paese. Siamo tutti orgogliosi di essere stati i quarti in Europa a connetterci alla rete delle reti, dimenticando però di essere oggi molto, ma molto giù nella classifica di fruibilità della rete, arrancando dietro a paesi con economie di gran lunga meno evolute della nostra. Dimostrazione lampante della nostra miopia verso questo settore. D’altro canto, non fu un garante per la comunicazione ad invitare gli italiani a non ‘comperare troppo cellulari’ per evitare il rischio di far collassare la rete, anziché spronare il governo a creare le condizioni necessarie alla realizzazione di infrastrutture adeguate ad una società come quella italiana? Certo, ieri il Presidente del Consiglio ha promesso che entro il 2020 tutta l’Italia sarà connessa ad almeno 30 Mbps. Non è la prima volta che accade, speriamo solo che sia veramente quella buona.

L’evento è poi sicuramente importante e significativo, ma io non lo considererei comunque un punto di svolta epocale da festeggiare in pompa magna. Certo, a rivedere la storia degli ultimi dieci anni, è evidente come le reti di dati abbiano trasformato la nostra vita, e siano diventate un elemento pervasivo della società odierna. Ma la realtà odierna non è figlia di internet in quanto tale, dato che Internet è solo una delle tante tecnologie di rete che esistevano in quegli anni (come, ad esempio, Decnet). A mio avviso deriva direttamente da una necessità della nostra società, la comunicazione, che ha giusto trovato nelle tecnologie di internet lo strumento migliore per esplicitarsi.

Internet si è giusto imposta come rete globale nella evoluzione darwiniana delle tecnologie, grazie alle sue caratteristiche di flessibilità e di resistenza derivanti dalle sue radici: il progetto militare arpanet, e le stringenti specifiche progettuali. Se Cerf, Kahn, Baran e Davies, i loro padri, non avessero costruito le fondamenta di quella che è la internet odierna – oppure se il DARPA avesse ritenuto di tenersi il TCP/IP ad uso esclusivamente militare – sono più che certo che oggi saremmo comunque connessi: utilizzeremmo giusto una tecnologia differente.

Per chi, come me, si è trovato dall’altra parte del modem ben prima dell’avvento di internet, è infatti chiaro che l’interconnessione era un desiderio oggettivo di tantissime persone comuni, e non addette ai lavori: una pulsione spontanea – che quindi veniva dal basso – di tanti fra coloro che avevano in casa un personal o un home computer.

Io ricordo spesso che quando, sul finire del 1984, misi in funzione la mia prima BBS – nata per pura sperimentazione tecnologica – ero convinto che gli utenti sarebbero stati giusto i pochi amici che avevo invitato a collegarsi. Rimasi molto sorpreso nel constatare come,  nel giro di giusto un paio di settimane, il gruppo dei frequentatori aveva superato le cento unità, nonostante all’epoca le notizie non viaggiassero istantaneamente per il mondo come oggi.

La rete Fidonet ebbe un successo clamoroso per quei tempi, arrivando a contare nel nostro paese un paio di centinaia di nodi ed un bacino di utenza di qualche centinaio di migliaia di persone. Numeri grandi in un’epoca in cui i computer non avevano certo la diffusione odierna. Tutto questo nonostante fosse realizzata con apparecchiature comuni, che spesso in orario di lavoro erano usate per attività di ufficio, da persone che mettevano tempo e risorse gratuitamente a disposizione degli altri, come l’allora mitica posta elettronica ed aree di discussione che ricordano da vicino i gruppi dei social network attuali. Dimostrazione del fatto che sono le esigenze a dettare le regole, che queste si incanalano nella migliore tecnologia disponibile, e che quindi è proprio l’esigenza di comunicare che ha reso internet quella che è oggi – non il contrario.

Io credo, invece, che la società moderna dovrebbe festeggiare una Festa del Microprocessore.

E’ infatti lo sviluppo e la disponibilità in grandi volumi ed a prezzi modici di questo dispositivo elettronico che ha concretamente creato il mondo connesso di oggi.

Non solo è il cuore di ogni dispositivo digitale che usiamo per comunicare, ma oggi controlla e supervisiona una gran parte del nostro mondo, dalle macchine del caffè agli autoveicoli.

Ahimè, anche in questo ambito la nostra beneamata Italia ha dimostrato miopia. Infatti uno dei tre progetti che si contendono il primato del primo microprocessore della storia (Il “Central Air Data Computer”, il Texas TMS1000 e l’Intel 4004), peraltro quello più famoso, il 4004 di Intel, è stato diretto da un nostro conterraneo, Federico Faggin, già dipendente della Olivetti di Ivrea. Ce lo siamo fatti scappare alla stregua di tante altre menti che lasciano costantemente il nostro paese.

Come le macchine a vapore furono l’elemento di discontinuità che diede vita alla rivoluzione industriale, il microprocessore è il vero artefice delle rivoluzione che stiamo vivendo. E solo grazie ad esso che la nostra civiltà va progressivamente abbandonando il mondo analogico, che ha imperato sino all’inizio degli anni ’70, verso la nuova dimensione digitale.

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Si tratta di un processo che, come dimostra la curva della crescita tecnologica, è sicuramente destinato a protrarsi, e non poco, nel tempo.

Se siamo stati miopi sino ad ora, forse è arrivato il momento di guardare con maggiore attenzione il futuro in prospettiva, consci del fatto che chi si ferma è perduto.

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