E’ davvero #lavoltabuona per la scuola?

di | 21 Maggio 2015

E’ davvero ‘la volta buona’ per la scuola?

Mettendo da parte il tifo da stadio che negli ultimi lustri il marketing politico è riuscito ad imporre alla nostra società, su questioni di questa portata credo sia importante ragionare sui contenuti e non sugli slogan. La scuola è un elemento fondante della nostra società, e ‘Cambiare’ non è sinonimo di ‘Migliorare’. L’ultima riforma del governo Berlusconi è una riprova di questo concetto: sbandierata come cambio epocale – ricordiamo tutti la ‘scuola delle 3I, Informatica, Inglese, Impresa’ – ha perso per la strada tutti gli elementi distintivi ed ha ottenuto come risultato solo quello di distruggere un modello di insegnamento efficiente – il modulo della scuola primaria – e tagliare ulteriormente i finanziamenti ad un settore già alla canna del gas.

Dal mio punto di vista l’organizzazione della scuola italiana è obsoleta. Le ‘riforme’ fatte sino ad ora non hanno minimamente influito sull’impianto di fondo, che è oggettivamente arcaico. L’articolazione in tre gradi è un retaggio di quando una larga fetta della popolazione si fermava al conseguimento della licenza elementare, dopo i cinque anni di istruzione obbligatoria, e pochi erano i fortunati che potevano accedere alle scuole superiori.
Ma che senso ha oggi mantenere questa stessa organizzazione, visto che l’obbligo scolastico è diventato di 10 anni? Mi sarei aspettato che una riforma realmente epocale partisse da questo problema per delineare una scuola più aderente alle richieste della società e del mondo del lavoro, e più flessibile: meno frammentata in una miriadi di indirizzi secondari, ma più in grado di fornire ad ogni singolo studente una preparazione confacente ai propri talenti.
D’altro canto, il fatto che l’organizzazione sia oggettivamente un problema è certificato indirettamente dai risultati del sistema di valutazione, che riporta un livello di qualità che decresce man mano che si sale nel segmento di istruzione.

L’altro problema, solo lievemente sfiorato dalla riforma Giannini, è che la scuola ha necessità di dotarsi di un sistema oggettivo di valutazione e miglioramento in grado di supervisionare costantemente il sistema scolastico e che abbia efficacia ed impatto sulla pianificazione delle attività.

Io ho seri dubbi sull’efficacia delle prove di valutazione a quiz (leggi Invalsi). Anche nella loro patria, gli USA, c’è molta discussione sull’argomento, per via dell’atteggiamento preso da molti istituti di favorire un apprendimento finalizzato al buon risultato della prova di valutazione, piuttosto che alla formazione di un individuo preparato, il cosiddetto Teaching to test.  Problema sintetizzato in un teorema socio-statistico, la Legge di Campbell, che in soldoni afferma che maggiore è l’uso di indicatori per valutare un fenomeno sociale, maggiore è la probabilità che questi avranno l’effetto negativo di alterare il processo sociale sotto misura.

Ma anche ammesso che i risultati siano una buona fotografia dello stato dell’istruzione, è una misura che non fornisce dati significativi sulle azioni di miglioramento necessarie a garantire a tutti i cittadini un sistema scolastico di qualità omogenea, o di disporre azioni correttive per risolvere i problemi quando questi insorgono, e non dopo che hanno prodotto danni.  La strada scelta da ‘la buona scuola’ è stata sostanzialmente quello di affidare questo compito ai dirigenti di istituto, aumentando significativamente potere e responsabilità. Ma quanti di questi saranno oggettivamente in grado di affrontare efficacemente questo compito? E, soprattutto, come mai potrà essere uniforme ed oggettivo un processo di valutazione lasciato alla libera organizzazione individuale?

D’altro canto basta dare una occhiata all’ultimo report della Comunità Europea in merito di qualità dell’istruzione nell’Unione, Assuring Quality in Education, per rendersi conto facilmente della grande differenza di approccio fra altri paesi, compresi alcuni che fino a qualche hanno fa avremmo definito svantaggiati, e la nostra Italia.

Temo che ci sia ancora tanto, ma tanto lavoro da fare per recuperare il tempo perduto. Al di là degli slogan.

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