Ci sarà forse un giorno, tra qualche secolo, in cui qualcuno troverà una scheda di memoria nel terreno, come oggi troviamo una tavoletta d’argilla.
La terrà tra le dita, ne studierà la forma e si chiederà: che cosa conteneva?
E probabilmente non potrà mai saperlo.
Abbiamo imparato a leggere i segni incisi dagli antichi Sumeri, a decifrare le iscrizioni su bronzo, a ricostruire frammenti di papiri sopravvissuti a millenni. Eppure rischiamo di non essere in grado di leggere noi stessi.
Oggi viviamo immersi nei dati. Ogni gesto produce tracce: foto, messaggi, video, documenti. Abbiamo riempito il mondo di informazione, convinti che tutto ciò che è digitale sia eterno.
Ma la verità è che la nostra memoria non è mai stata tanto fragile.
Quando muore un computer, muore anche una piccola parte della nostra storia.
A volte ce ne accorgiamo: un hard disk che smette di funzionare, una chiavetta che non si apre più.
Altre volte la perdita è silenziosa.
Un formato diventa obsoleto, un software non esiste più, un servizio online chiude i battenti.
Apriamo un cassetto, e troviamo un floppy disk dimenticato da qualche anno. In quanti sarebbero nelle condizioni di poterlo leggere oggi?
I dati probabilmente sono ancora leggibili, ma non abbiamo più le chiavi per accedervi.
È come avere un archivio perfetto, ma sigillato per sempre.
Mi capita spesso di citare un episodio. Io ho iniziato la mia attività con un caro amico, un ingegnere con cui – tra gli anni Settanta e Ottanta – ho condiviso un lungo percorso di sperimentazione e curiosità. Abbiamo prodotto assieme una grande quantità di materiale, con lui che si occupava della parte ingegneristica, io di quella informatica.
Insieme abbiamo lavorato su macchine che oggi sembrano reperti di un’era pionieristica: la Programma 101 della Olivetti, l’HP 9100B, l’HP 3000, passando per tutta la serie HP98xx.
Era un tempo in cui ogni riga di codice era ponderata, visto che la memoria al più si misurava in kilobyte.
Ma dietro quella limitatezza c’era una straordinaria libertà intellettuale: la sensazione di poter costruire il futuro, bit dopo bit.
Quando il mio amico è scomparso, qualche anno fa, la sua vastissima biblioteca cartacea è stata salvata e resa pubblica. Un gesto di grande rispetto e lungimiranza, ed una testimonianza rispettosa. Ma, nonostante le mie sollecitazioni, nessuno ha ritenuto importante preservare la sua produzione digitale.
I programmi, le simulazioni, i calcoli – tutta la parte viva, creativa, del suo lavoro – sono rimasti intrappolati su supporti ormai inaccessibili e deperiti: schede magnetiche, dischetti, nastri, vecchi hard disk.
E così, oggi, quella parte della sua eredità culturale è probabilmente persa per sempre.
Non c’è stata nessuna catastrofe, nessun incendio.
Solo un lento svanire, invisibile, nella polvere elettronica del tempo.
Ci piace credere che “tutto è su internet”, che nulla si perda. Ma il cloud non è un archivio: è un servizio. E i servizi chiudono, cambiano, cancellano.
Basta citare MySpace, Picasa, Google+. O ricordare Splinder per capire quante memorie personali siano evaporate nel nulla. Il web è un flusso in continuo movimento, non un archivio stabile.
Ogni giorno milioni di pagine scompaiono, lasciando dietro di sé collegamenti vuoti.
È un gigantesco presente che si riscrive da solo, cancellando il proprio passato.
Gli archivisti già parlano di “età oscura digitale”: un’epoca futura in cui il nostro tempo – il più documentato della storia – sarà paradossalmente il meno leggibile. Gli archeologi del 3000 forse potranno ancora leggere lettere incise nel bronzo, ma non i documenti che oggi salviamo su un disco. Sapremo più dei Romani che di noi stessi.
È una prospettiva inquietante. Perché dietro ogni file c’è un pezzo di vita, un pensiero, una creazione. Eppure trattiamo tutto ciò con una leggerezza quasi infantile, come se bastasse premere “salva” per garantire l’eternità.
In realtà la memoria digitale non è un oggetto che si conserva, ma un processo da mantenere. Un libro può restare leggibile se nessuno lo tocca; un file, se non lo aggiorniamo, è destinato a morire. Un formato, un disco, un supporto, un sistema operativo: tutto ha una scadenza. Sopravvive solo ciò che migra. La memoria digitale è, in fondo, come un organismo vivente, che deve essere alimentato, curato, replicato.
Ma non è solo una questione tecnica. È un problema culturale.
Abbiamo costruito cattedrali di informazione su fondamenta fragilissime. Abbiamo affidato la nostra memoria collettiva a supporti che non sopravvivono a un decennio, a tecnologie che cambiano più in fretta della nostra capacità di adattarci.
Eppure, basterebbe poco: scegliere formati aperti, duplicare, migrare, documentare, educare alla conservazione. Non serve essere informatici per capire che la cura della memoria è una forma di responsabilità civile. Conservare significa decidere che qualcosa ha valore. E noi, troppo spesso, non ci diamo il tempo di fare quella scelta.
Forse, tra cento anni, qualcuno troverà davvero quella scheda di memoria. Potrebbe contenere la voce di un bambino, un romanzo, una sinfonia, o solo una lista della spesa. Non lo sapremo mai, se non avremo avuto la saggezza di custodire le chiavi.
Ogni volta che penso al lavoro perduto del mio amico, sento la stessa malinconia che si prova davanti a un libro bruciato. Non per la cenere, ma per le parole che non potremo più leggere.
La nostra epoca è la più documentata, eppure forse sarà la meno ricordata. Perché la memoria, anche quando è fatta di bit, non si conserva da sola. Va amata, curata, tramandata.
Come ogni cosa viva.
Nella foto alcuni supporti, una volta comuni, che sono oramai sconosciuti ai più. Le cassette ECMA, i tradizionali floppy da 3.5″ ma anche i meno noti 3″, le cartucce Zip da 100Mbyte, schede di memoria, o le cassette audio usate come supporto specialmente negli home computer. Sono tutti formati di gran lunga più giovani di me.