Quando il Futuro Bussava alla Porta

La rimasterizzazione di questo breve servizio del TG3 del gennaio 1986, registrato con la tecnologia video domestica dell’epoca, è diventata l’occasione per guardare indietro e riflettere su un passaggio cruciale della nostra storia tecnologica.
A quarant’anni di distanza, quelle immagini un po’ sgranate e quei toni entusiasti restituiscono il clima pionieristico di un’Italia che muoveva i primi passi nel mondo digitale — tra modem acustici, linee telefoniche analogiche e la curiosità di una generazione che sognava una rete libera e globale.
Rivedere oggi quel filmato, restaurato con le tecniche moderne, non è solo un esercizio di memoria, ma anche un modo per misurare la distanza percorsa e interrogarci sul senso dell’innovazione: da dove siamo partiti, cosa abbiamo imparato e quale futuro stiamo costruendo per i prossimi quarant’anni.


Italia 1986

Un’istantanea di una rivoluzione annunciata

Questa mia intervista al TG3 del gennaio 1986, condotta dal compianto Rocco Brancati, è un documento straordinario che cattura un momento di svolta nella storia tecnologica italiana.
Mentre il Paese si affacciava timidamente all’era digitale, da Potenza cercavamo di anticipare e costruire il mondo interconnesso in cui viviamo oggi.


Il contesto storico

Nel 1986 l’Italia viveva una fase di profonda trasformazione tecnologica.

Il panorama informatico domestico era dominato dai computer a 8 bit come il Commodore 64 (lanciato nel 1982 e diffusissimo anche in Italia), lo ZX Spectrum e i primi modelli Amstrad.
Questi computer, considerati allora “giocattoli costosi” da molti, stavano lentamente entrando nelle case italiane — principalmente per i videogiochi, ma con un crescente interesse verso applicazioni più serie.

La televisione pubblica viveva ancora il monopolio RAI, che sarebbe terminato definitivamente solo nel 1990. Il Televideo, lanciato nel 1984, rappresentava l’avanguardia tecnologica della rete pubblica.
L’idea di trasmettere software via etere attraverso il segnale televisivo (Telesoftware) era rivoluzionaria: immaginate di scaricare programmi lasciando acceso il televisore di notte, registrando i dati su cassetta.

Le telecomunicazioni erano monopolio della SIP (Società Italiana per l’Esercizio Telefonico), e le linee telefoniche erano ancora prevalentemente analogiche.
Chiamare in teleselezione interurbana era costoso — figuriamoci collegarsi a un BBS: ogni minuto di connessione era un investimento.


Il monopolio SIP e la “guerriglia tecnologica”

Un aspetto cruciale dell’intervista, che oggi può sfuggire, riguarda l’uso di termini come accoppiatore acustico o modem noleggiato dalla SIP.
Non era ingenuità linguistica, ma necessità legale.

Nel 1986 era infatti illegale collegare alla rete telefonica qualsiasi apparecchiatura non fornita o autorizzata dalla SIP.
Il monopolio delle telecomunicazioni si estendeva anche agli apparati terminali. Chi voleva collegarsi a un BBS aveva sostanzialmente due opzioni:

  1. L’accoppiatore acustico: un dispositivo che convertiva i segnali digitali in suoni, letteralmente appoggiato alla cornetta del telefono.
    Non essendo collegato elettricamente alla rete, aggirava tecnicamente il divieto. Era lento (300 baud), inaffidabile, sensibile ai rumori ambientali, ma legale.
  2. Il modem noleggiato dalla SIP: costosissimo, con canoni mensili proibitivi, spesso obsoleto rispetto agli standard internazionali, ma l’unica opzione legale per una connessione diretta.

La realtà pratica? Molti pionieristici smanettoni italiani usavano modem non autorizzati importati dall’estero o autocostruiti, rischiando tecnicamente sanzioni.
Quando nell’intervista parlavo di possibilità “teoriche” di collegarsi alla rete mondiale, c’era una sottile ironia: teoricamente era possibile, praticamente era un percorso a ostacoli tra costi proibitivi, vincoli legali e infrastrutture inadeguate.

Questa situazione rappresentava perfettamente il paradosso italiano di quegli anni: da un lato la spinta innovativa dei pionieri digitali, dall’altro un framework normativo pensato per proteggere il monopolio pubblico che finiva per soffocare l’innovazione.


I Bulletin Board System: l’alba delle comunità online

Quando parlavo dei BBS, stavo descrivendo quello che per molti italiani era pura fantascienza.
I Bulletin Board System erano nati negli Stati Uniti nel 1978 (il primo fu il CBBS di Ward Christensen e Randy Suess a Chicago), e nel 1986 stavano esplodendo in America con oltre 100.000 sistemi attivi.

In Italia eravamo agli albori. Il BBS di Potenza che gestivo era pionieristico non solo per il Sud Italia, ma per l’Europa intera, ed uno dei primi a collegarsi alla neonata rete internazionale FidoNet.
Questi sistemi funzionavano con computer dedicati, spesso assemblati in casa, collegati a modem che raggiungevano la velocità “strabiliante” di 300 o 1200 baud — per intenderci, scaricare un’immagine poteva richiedere diversi minuti.
Vale la pena sottolineare che al momento dell’intervista, l’Italia non era ancora connessa ad Internet: il primo collegamento sarebbe stato tre mesi dopo, fra il Cnuce di Pisa e la controparte di Roaring Creek attraverso il collegamento satellitare di Telespazio al Fucino (a 9600bps).

La sfida era doppia: tecnologica, certo, ma anche economica e legale.
Far funzionare un BBS 24/7 significava tenere occupata una linea telefonica (con relativi costi), gestire hardware delicato e navigare nella zona grigia della legalità delle connessioni.


Le intuizioni e le battaglie

– Il lavoro da remoto

L’idea che si potesse “lavorare a casa collegando il computer con quello dell’ufficio” era visionaria.
Nel 1986 pochi avevano un computer in ufficio, figuriamoci a casa.
Eppure anticipavo esattamente ciò che sarebbe diventato realtà con Internet, le VPN e, quarant’anni dopo, la normalità del remote working accelerata dalla pandemia.

– La paura della robotizzazione

La domanda di Brancati sui rischi dell’automazione rifletteva un dibattito reale.
La mia risposta cercava di ribaltare la narrazione: non isolamento, ma ampliamento delle possibilità di connessione.
Vedevo nei BBS uno strumento di democrazia informativa, un modo per superare le distanze geografiche – particolarmente significativo per chi, come me, operava da Potenza, lontano dai centri tecnologici del Nord.

– L’accessibilità come battaglia politica

Quando sottolineavo che non servissero “apparecchiature sofisticate”, c’era un messaggio implicito:
la tecnologia poteva e doveva essere accessibile.
Era una posizione contro l’élitarismo tecnologico, contro l’idea che la rivoluzione digitale fosse riservata ai grandi centri urbani o ai laboratori universitari.


Il contesto geografico e sociale

Che il primo BBS del Sud Italia fosse a Potenza non era casuale, ma nemmeno scontato. Rappresentava:

  • Una sfida al divario tecnologico Nord-Sud: mentre l’innovazione si concentrava nel triangolo industriale, era la dimostrazione che la rivoluzione digitale poteva nascere ovunque.
  • Il ruolo degli enti pubblici locali: ho sempre creduto che l’innovazione tecnologica potesse essere uno strumento di sviluppo territoriale.
    Se avessimo avuto una classe dirigente più attenta alle prospettive aperte dal progresso tecnologico, la storia avrebbe avuto probabilmente un altro corso.
  • L’importanza della divulgazione: che il TG3 dedicasse un servizio a questa esperienza aveva un valore simbolico enorme, un riconoscimento implicito del Sud come parte attiva nella modernità tecnologica italiana. Ma è anche testimonianza concreta di una delle funzioni primarie del servizio pubblico, che – ahimè – mi sembra essere scaduta nel tempo.

Cosa mancava alla visione

  • Il World Wide Web sarebbe nato solo nel 1989 al CERN, e reso pubblico nel 1991.
    I BBS erano testuali, basati su menu e comandi – l’idea di “navigare” cliccando su link ipertestuali era ancora di là da venire.
  • La liberalizzazione delle telecomunicazioni: nel 1998 il monopolio SIP sarebbe finalmente caduto, aprendo il mercato alla concorrenza e permettendo finalmente di collegare liberamente i propri dispositivi.
  • La democratizzazione di Internet attraverso i provider commerciali (in Italia a metà anni ’90) avrebbe reso obsoleti i BBS nel giro di un decennio, anche se la loro eredità culturale – le comunità online, il free software, la condivisione peer-to-peer – sopravvive ancora.
  • La velocità di connessione sarebbe esplosa: dai 1200 baud del 1986 ai 56k dei modem degli anni ’90, fino alla banda larga e alla fibra odierna.

Il valore del documento oggi

  1. Testimonia battaglie dimenticate: oggi ci lamentiamo della lentezza della banda larga, ma dimentichiamo che c’è stato un tempo in cui collegare un modem era illegale.
  2. Mostra il ruolo educativo della RAI: la televisione pubblica tentava di spiegare agli italiani cosa fossero queste nuove tecnologie.
    Rocco Brancati, con le sue domande, traduceva per il grande pubblico concetti che oggi sono scontati ma allora erano astrusi.
  3. Cattura l’entusiasmo pionieristico: il mio tono tradiva la passione di chi stava costruendo qualcosa di nuovo, l’eccitazione di collegare Potenza al mondo nonostante tutti gli ostacoli.
  4. Documenta un momento di transizione: tra il monopolio pubblico e il mercato libero, tra l’informatica per pochi e la rivoluzione digitale di massa, tra l’isolamento periferico e la connessione globale.

l’ottimismo e le sue ombre

Rivedendo oggi quelle parole del 1986, mi rendo conto che forse ero troppo ottimista.
Allora credevo che l’accesso diretto alle informazioni avrebbe inevitabilmente favorito la diffusione della conoscenza, l’apertura mentale e la collaborazione tra le persone. Non immaginavo che, insieme alla libertà di informazione, sarebbe arrivata anche la disinformazione, la polarizzazione, la manipolazione.

Eppure continuo a pensare che il problema non sia nel mezzo, né nella tecnologia.
Le reti, allora come oggi, sono strumenti: potenti, neutri, potenzialmente liberatori.
La differenza la fa la nostra capacità di comprenderli, educarci al loro uso e governarne gli effetti.

Forse è questa la lezione più importante di questi quarant’anni: che il futuro non dipende mai solo dalle macchine, o dalla tecnologia, ma da come noi esseri umani scegliamo di abitarle.


Dal gracchiare del modem all’era dell’IA

Guardando a questa intervista dal 2025, posso sorridere pensando agli accoppiatori acustici e alle battaglie contro il monopolio SIP, ma anche riflettere su quanto sia stato rapido e profondo il cambiamento.
In meno di quarant’anni siamo passati da BBS accessibili uno alla volta tramite modem gracchianti (spesso illegali!) a miliardi di persone connesse simultaneamente tramite smartphone.

Eppure, le domande fondamentali che Brancati poneva allora – il rischio di robotizzazione, il bilanciamento tra tecnologia e umanità, l’accessibilità degli strumenti digitali – rimangono drammaticamente attuali.
Forse ancora più urgenti oggi, nell’era dell’intelligenza artificiale e della connessione pervasiva.

Quella intervista del gennaio 1986 non documentava solo la nascita di una tecnologia, ma l’inizio di una trasformazione sociale che stiamo ancora vivendo.
E il fatto che questa conversazione avvenisse dalla periferia dell’Italia – con Brancati che portava le voci da Potenza al grande pubblico nazionale – dimostra come la rivoluzione digitale fosse già allora, almeno nelle intenzioni e nelle lotte di chi ci credeva, democratica e distribuita.

Il futuro che descrivevo con entusiasmo (e qualche necessaria cautela legale) è diventato il nostro presente.

Quale futuro stiamo costruendo oggi per il 2065?
E quali sono i nuovi monopoli che le prossime generazioni dovranno abbattere per continuare a innovare?

 

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